Sulla libertà di parola

Notte inoltrata, un ragazzo sulla trentina abbastanza muscoloso passeggia con il cane, un incrocio tra boxer e qualcosa di più elegante. Il marciapiede deserto corre tra le macchine parcheggiate e le palazzine di un quartiere poco curato. Degrado che la debole luce gialla dell’illuminazione pubblica nasconde un po’.

Il cane si ferma sull’angolo di un laboratorio di unghie chiuso da chissà quanto, annusa un po’, e fa una pisciatina. Il ragazzone estrae dalla tasca posteriore dei jeans una bottiglietta verde con acqua e qualche detergente, e lo versa su dove il cane ha bagnato. Civiltà! Proseguono. Cinque-sei metri, e il cane nuovamente si ferma, e con lui il padrone, attratto questa volta dall’armadietto grigio della Telecom.

Annusa, annusa, e ci piscia. Come il cane si sposta, il ragazzo subito con la bottiglietta lava via l’urina dall’armadietto. Il cane lo guarda. Vanno avanti. Altri sei-sette metri e si fermano nuovamente. Il cane dà un’annusata sommaria a un paracarro e ci piscia quasi simbolicamente, più per dovere che per interesse. Prontamente il ragazzo, ancora con il suo intruglio detergente.

Il cane lo guarda, e gli dice -gli parla! con voce umana!-: “Senti, ma la vuoi smettere di versarmi l’acqua dietro? Cosa cavolo ci piscio a fare in giro io!?”. Il ragazzo lo guarda: nessuna risposta. Ed è proprio la risposta che non è dovuta quando si sta al guinzaglio di un padrone.

Proseguono.

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