C’è il detto “due anarchici, tre opinioni”. Per questo non ho mai sentito il bisogno di aderire a qualche gruppo, anzi, me ne tengo volentieri in disparte.
La cosa però è un po’ triste. L’attuale pratica anarchica è inerte. Dopo la fiammata della metà degli anni ’70, non se n’è fatto più nulla. L’impronta sociale dell’anarchia, come idea, si rispecchia nel numero delle A-cerchiate disegnate sui muri delle città. Molte, tra l’altro, hanno oltre 20 anni.
Ciò che maggiormente mi tiene lontano dall’associazionismo anarchico sono la sua manifestazione vetero-ideologica, la tendenza a rimanere confinato come un pensiero di nicchia, tipo un “club” per pochi eletti, e un “culto” dell’anarchismo inteso come opposizione sempre e comunque.
Mi spiego.
Per me l’anarchia è un obiettivo, un concetto filosofico e sociale che ci aspetta nel futuro, verso il quale orientare il proprio impegno. Per questo quando vedo i compagni anarchici comunicare con un’iconografia che si richiama alla Guerra civile spagnola del ’36, mi cascano le palle.
La maggior parte dei gruppi si ispira all’anarco-comunismo: per me è un’ossimoro. Ciò non significa che non esistono persone seriamente convinte in questa forma, ma è quasi certo che io non starò zitto davanti a questa (per me) contraddizione.
Per me l’anarchia va cercata nel progresso, filosofico, sociale e tecnologico. Io voglio il teletrasporto e i sintetizzatori di cibo, per emancipare l’umanità dalla fame e dal confinamento spaziotemporale. La tecnologia è frutto dell’ingegno umano, di millenni di studi scientifici. Opporsi senza appello né volontà di discussione ai treni ad alta velocità, all’energia nucleare, ai gasdotti, alla SPERIMENTAZIONE su colture Ogm, è semplicemente folle, da ottusi.
Ok l’ambiente, tuteliamolo; ok se qualcuno vuole nutrirsi di ortaggi biologici auto-coltivati, è liberò; ok se uno nel 2018 vuole viaggiare a dorso di mulo su sentieri in terra battuta, è una scelta di vita. Ma tutte queste cose richiamano un passato “romantico”, una mai esistita “età dell’oro” dell’umanità. Dobbiamo invece andare avanti, trovare un modo per avere gli spazioporti e i muli, cibo Ogm e quello biologico, energia abbondante e ambiente pulito.
Peggio ancora sopporto le simpatie espresse acriticamente dagli anarchici verso i “combattenti” — Pkk, Elzn, Ypg/Ypj, “resistenza” palestinese, ecc. — manco fossero squadre di calcio. Sì, qualcuno magari si è trovato la guerra in casa e lotta per sopravvivere, per la “libertà” e altre belle cose, ma c’è una sistematica rimozione delle ingiustizie e dei crimini che OGNI guerriglia compie in un conflitto. Si è sordi e ciechi quando vengono colpiti gli innocenti, quando anche i propri civili vengono appositamente coinvolti negli scontri, quando vengono praticati terrorismo, saccheggio, “giustizia” sommaria e pulizia etnica. Ogni guerriglia, non ci sono santi.
C’è inoltre questo bisogno mal celato di “resistenza” fisica/armata, che però non trova motivo reale di essere, perché non viviamo nel Chile di Pinochet. Un po’ per pigrizia, un po’ per il rifiuto dogmatico di partecipazione alla vita politica, si finisce col fare cortei di protesta, ma senza proposta; darsele con la polizia come una specie di rito; ingaggiare guerriglie contro i cantieri, ignorando (politicamente!) i centri decisionali. Mi va anche bene in alcuni casi la pars destruens dell’attivismo. Ma, nonostante l’abbondante elaborazione teorica, manca totalmente la pars costruens.
Secondo me c’è dunque bisogno di partecipazione politica degli anarchici nel sistema che c’è ora. Votare non basta, bisogna organizzarsi in un movimento, un partito “anarco-democratico” o che ne so, con persone che si presentino alle elezioni a ogni livello, studino come funzionano le cose e le cambino in linea con le proprie visioni politiche. Insomma, compagni e compagne, uscite dal buco del mondo di Alice, tornate in questo mondo e cercate di trasformarlo. Non ci sono miracoli, né omeopatie, né ha senso aspettare il messia. Il mondo migliore non si farà da sé. L’unica è partecipare e lottare dentro, non attorno.